A chi conosce la storia della fotografia viene spontaneo abbinarle per tanti aspetti a quelle serene dei bambini di Mario Giacomelli e anche a certi ritratti di donne colti da Tano D’Amico. Come in altri reportages a tema etnografico, quali quelli sugli indiani Dakota d’America o sul matrimonio eritreo, l’occhio della fotografa sembra sempre allineato su una persistente linea poetica tesa alla ricerca soprattutto dell’espressività dei volti di donne e bambini. Probabilmente è il primo lavoro importante della fotografa carnica che rivela anche quale sarà l’orientamento prevalente nelle sue indagini sociali successive che risulteranno imperniate attorno al ritratto. Prova ne è il fatto che nel periodo 1985-87 la Di Piazza sarà allieva presso uno studio professionale di ritrattistica.
È palesemente evidente come tra lei e i soggetti da ritrarre si instauri uno stretto feeling: essi si prestano al gioco e alle intenzioni della fotografa che riesce a restituirci immagini al confine tra posa studiata e indotta spontaneità sia nelle figure intere che nei primi piani.
La scelta effettuata dalla Di Piazza è evidentissima: il suo sguardo privilegia donne e bambini. Sono scelte socio-politiche chiare che guidano i suoi reportage su gruppi umani e su particolari aspetti folcloristici e usanze, come in Matrimonio eritreo o sull’etnia dakota. Le donne eritree si susseguono in delicate sequenze come i veli e i mantelli simili a garza bianca in cui sono avvolte: sembrano vestali o comunità di monache, comunque appartenenti a una società coesa. Donne e bambini innanzitutto e i loro sguardi. Sono assenti nelle inquadrature i membri maschili della comunità. Viene sottolineata l’importanza della cerimonia, ma ciò che lascia perplessi e dubbiosi è che nelle fotografie risulta un matrimonio al femminile, la coppia non esiste, lo sposo rimane un mistero. Le donne vengono immaginate come una comunità all’interno di una comunità.
Anche nelle immagini sui Dakota protagoniste sono le donne, i giovani, i bambini.
La fotografa attira la nostra attenzione sui dettagli dell’abbigliamento, le calzature, le acconciature, i monili, i lavori artigianali, la macinazione dei cereali, l’uso delle mani nella tessitura e nelle celebrazioni rituali con il loro sovrapporsi e intrecciarsi a suggerire il senso comunitario, di solidarietà e appartenenza. Immagini prevalentemente in bianconero per l’essenzialità rituale e i volti, a colori per risaltare il blu dei monili e il rosso mattone dei panni. Quasi sempre le riprese sono frontali col soggetto al centro dell’inquadratura che volge il suo sguardo all’ipotetico interlocutore delle sue fotografie una volta esposte al pubblico. Osserva lo spettatore leggermente dall’alto verso il basso. In entrambi i lavori etnici, come in quello sugli zingari, la Di Piazza mette in evidenza la convivenza, la tolleranza, la solidarietà, i valori positivi della vita.
La fotografa seleziona attentamente i soggetti da restituire in immagini e posa lo sguardo indagatore prevalentemente sugli appartenenti alle etnie straniere: comunità islamiche nordafricane, etiopi, somale, poi orientali quali cinesi, filippine, coreane con i loro cibi e strumenti musicali; figure in controluce che nuotano o che passeggiano sul bagnasciuga in parte riflesse sugli acquitrini e sugli specchi d’acqua; ragazzi in jeans e magliette disegnate con bibite e gelati in mano, giovani donne dai capelli lunghi e ramati.
Ultimo reportage che abbiamo esaminato quello sulla città di Milano, senza date, una serie di flash illuminanti sulla vita quotidiana in una metropoli.
Immagini descrittive, come il taglio delle inquadrature sempre orizzontali ci suggeriscono. Prevale anche in queste fotografie l’interesse per la gente: le persone in genere sono poste sempre al centro e le restituzioni in immagine sembrano in pratica ritratti ambientati. La città si percepisce attorno alle persone in maniera quasi sempre indiretta perché alla fotografa non interessano tanto le infrastrutture e i palazzi quanto il fluire della vita.
I reportages di Gigliola Di Piazza sulla città e su determinate etnie denotano un’attenzione prevalente per l’uomo, per i suoi comportamenti individuali e collettivi, per la compresenza multietnica negli spazi urbani. Le immagini comunicano efficacemente il differente dinamismo tra i quartieri del centro e le vie periferiche della città, l’attenzione per il mondo femminile, mentre evita quasi sempre di mettere al centro dell’obiettivo quello maschile, ma esse non pretendono di spiegare, ci sollevano un semplice emblematico interrogativo: Perché ha fatto questo? La risposta dobbiamo cercarla e intuirla.
E in fin dei conti la fotografa ci aiuta nel percorso di decodificazione delle immagini col suo linguaggio diretto, di immediata lettura, semplice e scevro da sovrastrutture compositive scenografiche, eccessivamente costruite.
Se scrittori, poeti e filosofi e persino fotografi famosi sostengono che in fotografia niente è come sembra, le immagini della Di Piazza denotano il contrario: la realtà è quella che appare.